E’ una cosa a cui non si può rimediare.
Perché una storia sia una storia d’amore tutto può mancare tranne l’amore. Passi la carineria, passi la dolcezza, passi anche il sesso e con questo tutte le varie ed eventuali sotto la voce vicinanza. In mezzo a tutto sto po’ po’ di roba che passa, ad un certo punto ciò che resta è la caparbietà a stare. E quando uno lo chiede all’altro, perché? Pare sorprendente ma “Perché ti amo” è la risposta.
È subito chiaro che si vive la classica situazione in cui le parole non bastano più. O ne sono state dette troppe, o troppo poche. Insomma, quella situazione in cui il giusto non trova un equilibrio dialogico, ma pare sospeso tra due fili: il filo trasparente della rimembranza di “ciò che due persone sono state”, e il filo del “quello in cui si sono trasformati”, sovente moltiplicandosi.
In questo “tanto” – vacuo per il cuore, triste per la mente – sta il presente, fatto di tanti piccoli gesti, a volte giusti e a volte sbagliati, che parlano al nostro posto, come ammaliati dalla litania di un quotidiano spento se osservato con gli occhi del cuore, e a tratti insopportabile se visitato dagli occhi della mente.
E a te ti sembra di saltellare, a volte per superare la prova dei carboni ardenti, altre per fare il giocoliere, perché quando sei stanco di piangere, per fortuna – depressione a parte – non ti resta che ridere.
E visto che a noi non ci piace affidarsi ad uno psicologo o a uno psicoterapeuta, smetti di salterellare e ti chiedi cosa ti serve per ritrovare la via di casa? Cioè la via del mio luogo confortevole, quello in cui “mi sento”, e non sto semplicemente?
Ci ho pensato. E’ l’unico rimedio.
Ci vuole un abbraccio.
Credo che sarebbe utile e per la maggior parte dei casi necessario tornare alla vecchia pratica dell’abbraccio per ristabilire contatti, tornare a provare vicinanze, evitando le parole; o meglio, lasciandole semplicemente in sospeso. Perché mettersi in ascolto dei sentimenti è l’unico vero modo per riuscire nuovamente a darvi voce.
Perché quando ti spendi in un abbraccio l’ovale del viso – tutto compreso, occhi, naso, bocca e orecchie – si scansa per lasciare posto al “cuore a cuore”. Perché quando ci si abbraccia, tutto il tuo corpo – braccia, gambe, mani, collo…proprio tutto il corpo tranne il cuore – si sente fuori posto. Il viso si corica sulla spalla dell’altro, le gambe misurano le distanze dei due ventri, e questi si toccano con più o meno disagio, diversamente detto in alcuni casi fastidio; le braccia si spalmano lungo la schiena dell’altro cercandosi una con l’altra per fare cerchio, a volte quadrato su una superficie – quella posteriore – che per l’occasione arretra, lasciando il podio a quella anteriore ed in particolare all’unica che consente il contatto a cuore.
Certo. Prova anche tu ad osservare due che si spendono in un abbraccio. Il corpo si scompone come quello di due burattini che si incontrano, come a cercare ogni singolo pezzo un posto altro, da occupare per l’occasione.
E il cuore, si sa, non ha bisogno di parole. A lui, il cuore, basta calore e battito. Si nutre di questo solo scambio, e perché la magia avvenga, chiede un contributo solo al tempo. Che non sia troppo, o troppo poco. Che sia giusto; che sia dedicato, raccolto intorno alla voce del cuore, intorno al suo battito; sintonizzato sull’unico suono utile a raccontare distanze e incomprensioni, a suggerire soluzioni, quelle universali, adattabili alle mille e una situazioni della vita, quelle che trasformano parole in echi. Quelle che disperdono, quelle che confondono, quelle che separano.
E dopo che ti sei perso in un abbraccio? Che fare? Raccontalo e scrivi questa storia. Sarà una lezione di vita che resta per te, e per chi grazie a te, leggendo tornerà a credere nel valore terapeutico di un abbraccio.